Le aziende del futuro

La situazione attuale: esiste davvero un gestione nelle organizzazioni senza scopo di lucro?

Federico Spazzoli

Introduzione

Il tema della gestione organizzativa nelle ONP è da alcuni anni oggetto di discussione tra studiosi e difficilmente riesce a trovare una collocazione precisa nei testi accademici e dei cosiddetti practicioners.
Il management, l’organizzazione e gestione efficace ed efficiente dei fattori produttivi, sembra non tanto non appartenere al mondo del non profit, quanto piuttosto appare argomentata e sviluppata con presupposti scientifici che spaziano di volta in volta dal controllo di gestione, alla gestione del personale, passando per la comunicazione ed il fund raising.
Pochissimi autori si preoccupano di tre aspetti che a mio parere sono cruciali: l’evidenza di una specificità organizzativa del non profit italiano, quasi un modus vivendi, la costruzione di un processo di gestione articolato e strutturato all’interno di ogni singola azienda senza scopo di lucro, il cambiamento definitivo dei paradigmi aziendali, ergo delle teorie manageriali negli anni passati.
Quest’ultimo punto meriterà un particolare approfondimento nel capitolo: il cambio strutturale dei processi produttivi, la modifica delle aspettative dei consumatori e del pubblico in generale, la comparsa di una qualche forma di economia morale, rendono ormai desueti i vecchi modelli di organizzazione aziendale.
Inoltre ha senso parlare di management? Quali sono i valori che contraddistinguono i nuovi leader in azienda? Si può pensare che una parte importante dei temi e delle pratiche aziendali più innovative siano stati sviluppate, forse inconsapevolmente, all’interno di ONP?
Infine abbiamo sviluppato, nel volume stesso, un’ampia riflessione sulle origini antropologiche e filosofiche della gestione aziendale, proprio per capire se ha ancora senso parlare di “management” e “manager” in un’economia che è stata profondamente sconvolta da cambiamenti strutturali e di sistema.

La gestione delle aziende senza scopo di lucro: il quadro attuale

Il tema della corretta gestione aziendale nelle ONP si è posto in modo esplicito tra la fine degli anni ’90 ed i primi anni 2000. Quali sono le ragioni ed i motivi per i quali una coerente ed efficace organizzazione, lo sviluppo, il controllo e la motivazione delle persone all’interno di una ONP, l’allocazione efficiente delle risorse, la misurazione empirica dei fattori e dei processi produttivi, non sono stati da subito, uno dei temi forti del non profit italiano? Le aziende senza scopo di lucro hanno altri modelli di gestione rispetto alle for profit, oppure semplicemente la dipendenza, nella maggior parte dei casi, dal settore pubblico ha impedito una rapida evoluzione di “mercato” del terzo settore italiano?
Il dibattito scientifico ed accademico degli ultimi quindici anni nel nostro paese non ha, a mio avviso, toccato in modo centrale i temi posti poco sopra. Gli studiosi, i ricercatori, i practioners e più in generale coloro che si sono occupati di gestione delle aziende senza scopo di lucro, hanno, in varie fasi e periodi, evidenziato un tema piuttosto che un altro. Il livello della discussione e del confronto tra studiosi non ha quindi riguardato la quotidiana gestione operativa oppure la visione e la missione, argomenti e temi di discussione che ogni ONP deve avere ben delineati.
Le organizzazioni del terzo settore, da parte loro, non hanno sempre contribuito in modo continuativo ed efficace alla discussione, al confronto tra modelli, come quello for profit, ed allo sviluppo consapevole di un’economia altra, basata su beni relazionali ma fortemente integrata sul territorio: salvo rari casi il non profit italiano non ha costruito modelli di business sostenibile!
La letteratura nazionale ed internazionale offre argomenti a favore di questa tesi.
La fragilità dei modelli organizzativi di molte ONP sono tuttora molto evidenti ed i vantaggi delle aziende senza scopo di lucro, sono, per lo più, vantaggi di posizione piuttosto che di strategia, intuizioni più che il risultato di un progetto organizzativo (C.Borzaga e S.Depedri 2003).
L’aver percorso modalità di welfare sussidiario oppure di secondo livello ma finanziato quasi sempre dal pubblico, non sembra quindi aver generato processi produttivi ed organizzativi di eccellenza in buona parte della aziende non profit italiane.
Più in generale si può affermare che il modello organizzativo del non profit italiano è più flessibile ed eterogeneo di quello delle for profit e degli enti pubblici e più capace di incorporare appartenenze multiple nei meccanismi di gestione corrente e di governance. Certamente questa maggiore apertura è all’origine di alcuni dei limiti di tale modello quali ad esempio la difficoltà della crescita dimensionale e una certa lentezza, almeno in teoria, dei processi decisionali (L. Fazzi 2000).
Uno dei grandi della teoria organizzativa e manageriale come P.F. Drucker, ha esplicitamente riconosciuto i limiti procedurali e di sistema di una buona parte del non profit. Drucker afferma che i leader di ONP hanno, da un lato, un numero elevato di “costituencies” quindi di gruppi di riferimento ai quale rendere conto all’interno di un’azienda senza scopo di lucro. D’altra parte, però, lo stesso Drucker afferma che le istituzioni non profit tendono a non dare priorità alla performance ed ai risultati. Questi ultimi due temi sono, nelle non profit, molto più importanti e molto più difficili da misurare e controllare rispetto a quello che avviene alle tradizionali aziende for profit: ne deriva che la pianificazione strategica, che parte dalla definizione della missione per le ONP, deve necessariamente individuare i cambiamenti fondamentali che l’azienda senza scopo di lucro vuole apportare alla società (P.F. Drucker 1989).
Lo sviluppo infine di organizzazioni non profit “one issue” ha ulteriormente limitato e circoscritto il dibattito scientifico sui principi organizzativi e sulle pratiche di gestione.
E’ infatti evidente che l’azienda non profit che ha una sola causa, un tema principale di azione e di genesi, tende a sviluppare un particolare modello organizzativo e più in generale di gestione: la causa stessa determina l’allocazione delle risorse ma anche la modalità di reperimento delle stesse, configurando così un sistema di governo interno alle ONP di tipo “monocratico”.
L’idea quindi che la gestione operativa e strategica delle aziende “one issue” sia imperniata ad esempio sul reperimento delle risorse finanziarie indispensabili al perseguimento ed al consolidamento della buona causa, fund raising, ha provocato gravi storture endogene ed esogene alle aziende non profit.
L’essenza della gestione operativa e strategica diviene quindi l’implementazione dei donatori e delle donazioni poiché senza di questi la ONP non si sostiene.
Il fund raising viene percepito e gestito come la modalità manageriale di riferimento della ONP a detrimento degli altri aspetti più tipicamente aziendali come la gestione e lo sviluppo delle persone, la progettazione ed il cambiamento sociale, i rapporti con i soci e più in generale, come ricordava Drucker, con le costituencies, i portatori di interessi.
L’enfasi quindi sul fund raising quale modalità di gestione e governo di una ONP, ha prodotto numerosi danni operativi, strategici e di evoluzione organizzativa del non profit italiano.
Il fund raising è solo uno dei temi della gestione di un’azienda senza scopo di lucro ed in particolare è il processo finale della comunicazione sociale, la quale a sua volta intende attivare percorsi di cambiamento sociale e strutturale dell’economia(F.Spazzoli,M.Matteini,M.Mauriello,R.Maggioli 2009).

L’originalità del non profit italiano e la riscoperta delle competenze relazionali e delle soft skills

Abbiamo evidenziato sopra i limiti teorici e pratici che hanno pervaso il non profit italiano nelle ultime due decadi.
E’ a tutti evidente che la mancanza di strategia e visione e la carenza di pratiche organizzative appropriate, abbiano ad esempio favorito un eccessivo turn over, nel volontariato in particolare, a detrimento proprio della crescita e della stabilità sistemica.
Molte aziende non profit non sono riuscite a trattenere ed a gestire talenti, spesso neo laureati che iniziavano un percorso professionale in questo settore con alte aspettative e motivazioni, proprio per la debolezza dei sistemi interni di rendicontazione, di sviluppo delle persone e dei talenti, di governance dell’azienda e di adeguati progetti di sviluppo operativo.
Vi sono tuttavia alcuni temi di gestione che risultano, in questo momento storico, particolarmente rilevanti: mi riferisco alle soft skills, ai beni relazionali e più in generale all’attenzione che alcune ONP hanno sempre posto rispetto al vissuto della persona, alle sue esigenze ideali ed operative, sia che si trattasse di un utente che di un socio lavoratore o di un dipendente.
Questi temi rappresentano un patrimonio importante per le ONP e possono certamente diventare un vantaggio competitivo anche in termini economici.
Se infatti simuliamo un gioco a somma zero dove ad una diminuzione reale dei salari deve corrispondere un’eguale ed in alcuni casi maggiore produzione e produttività, i fattori quali motivazione, leadership, gioco di squadra, empatia, diventano determinanti nel portare a compimento il processo produttivo, sia questo manifatturiero, alimentare, industriale oppure del terziario avanzato.
In un contesto socio economico come quello attuale nel quale è difficilissimo fare impresa, per la mancanza di liquidità ed anche per lo stravolgimento totale delle modalità produttive, distributive e di accesso ai mercati, l’aver sviluppato, come ha fatto una parte del non profit italiano, processi e prodotti innovativi attraverso la fidelizzazione del personale ed il riconoscimento del valore di ogni individuo, rappresenta un elemento distintivo e strategico di assoluto rilievo.
Pensiamo ad esempio al valore aggiunto che un artigiano esperto apporta ad un manufatto nel settore del lusso nazionale: senza la sua esperienza, conoscenza e manualità, molte aziende del nostro paese non riuscirebbero ad esportare capi di abbigliamento, scarpe, oggetti di arredamento e di design, conquistando importanti quote di mercato e resistendo ad una recessione, stagflazione in molti casi, ormai così diffusa nel nostro paese.
E’ quindi impensabile che la persona, con il suo patrimonio di conoscenze accumulato nel corso dei decenni e la capacità di diventare parte integrante del processo produttivo e relazionale della PMI, possa diventare improvvisamente obsoleta oppure un mero esubero o peggio un costo aziendale: questo significherebbe la diminuzione della capacità produttiva, il depauperamento dell’esperienza e del sapere aziendale, in alcuni casi la chiusura dell’azienda.
Pochi autori, sia accademici che ricercatori, si sono spinti ad evidenziare questi aspetti caratteristici del non profit ed in particolare, in un confronto con il for profit, quali possano essere i vantaggi competitivi nell’adottare i principi operativi e la base ideale del non profit per meglio allocare i fattori produttivi e aumentare la produttività.
Questo perchè l’assunzione forte che il non profit potesse essere in qualche modo un riferimento anche per il for profit, non riscuoteva nel nostro paese molti apprezzamenti, almeno fino a pochissimi anni fa, visto anche il dibattito provinciale e poco illuminato sviluppatosi in mondi aziendali diversi tra loro ed al quale hanno scarsamente contribuito opinion leader vari ed accademici.
Il mondo anglosassone, da sempre invece consapevole delle potenzialità del non profit anche in termini di performance aziendale, ha assunto, da qualche tempo, proprio i paradigmi del non profit, la leadership e la motivazione in particolare, quali basi per le pratiche aziendali del futuro.
Mi preme ancora soffermarmi su questi punti ed in particolare le cosiddette competenze soft, poiché rappresentano, a mio parere, uno dei contributi più innovativi e creativi che il non profit può dare all’implementazione di un nuovo modello di impresa, più consapevole e responsabile e legata al territorio di appartenenza.
La ricerca “Le leve strategiche del management aziendale: un confronto tra modelli di gestione e sviluppo del personale del for profit e del non profit” condotta su tutto il territorio nazionale con interviste aperte a trentotto tra aziende for profit e non profit, ha ben evidenziato quanto affermato sopra (Community Centro Studi 2013).
Vi è, infatti, nella ricerca, il riconoscimento da parte del for profit di alcuni elementi tipici del non profit quali, ad esempio, la leadership in azienda. Molti imprenditori e dirigenti di aziende tradizionali for profit, riconoscono al non profit una sorta di primogenitura ideale proprio del profilo del leader sviluppato in fase embrionale e poi definitiva nelle ONP: quasi a testimoniare che l’esperienza del capo azienda, dell’imprenditore che si prodiga in avventure aziendali audaci, debba essere ad appannaggio di chi possiede le doti morali per ricoprire tale ruolo.
Il nuovo imprenditore, quello che rischia e sta sul territorio in modo continuativo, diventa agente del cambiamento sociale e del welfare locale: le pratiche commerciali aziendali non vengono più viste, dalla maggior parte dei soggetti intervistati, come asettiche rispetto all’impatto sul territorio, quindi al vissuto ed alle ricadute sui dipendenti, le loro famiglie, la comunità locale, bensì come un continuum tra azienda, comunità, territorio e benessere collettivo.
In egual modo la creatività, che nella ricerca viene individuata come elemento caratteristico aziendale insieme all’innovazione, oggi tanto di moda, è un tema tipico del non profit, posto dalle aziende senza scopo di lucro e come tale riconosciuto anche dal for profit.
Se infatti, prosegue la ricerca, l’innovazione di prodotto è tipica delle aziende for profit, quella di processo è invece un elemento distintivo del non profit italiano che da sempre ha utilizzato metodologie di lavoro alternative di elaborazione e produzione dei beni, siano questi relazionali, manufatti oppure prodotti di consumo.
Possiamo quindi ipotizzare che in questo momento storico, caratterizzato dal crollo dei consumi, dal fallimento di molte aziende for profit, dalla scarsità di di mezzi finanziari, l’aver fatto molto con poco, tipico di un certo non profit del nostro paese, risulti un elemento strategico e determinante per il mantenimento delle produzioni, dei posti di lavoro, delle comunità del nostro paese?
Purtroppo questo processo virtuoso che ha riguardato i temi della leadership, della creatività e delle motivazione, non è stato ancora ben compreso dalla maggior parte delle aziende senza scopo di lucro del nostro paese.
Il terzo settore italiano non ha quindi, nella maggior parte dei casi, non solo non fatto propri i temi di cui sopra, ma nei rari casi in cui sono state sviluppate policies interne alle ONP che riguardavano il cambiamento in azienda adottando la responsabilità produttiva, il rispetto della persona e la creatività, tutto questo non è stato pienamente compreso dai dipendenti, dai dirigenti e dai portatori di interesse del variegato mondo del terzo settore.
Infine la motivazione. La ricerca condotta da Community Centro Studi evidenzia bene il terzo elemento caratterizzante delle soft skills, nate e sviluppate nel non profit. Il rapporto di ricerca evidenzia una certa similitudine, in relazione ad elementi di motivazione diffusa e non gerarchica, tra imprese for profit, in particolare le PMI, e le imprese sociali.
Sembra quindi che il tema della motivazione venga non tanto e non solo fatto proprio anche dalle PMI, ma rappresenti una sorta di elemento distintivo anche in relazione alla natura dell’azienda, sia questa for profit oppure senza scopo di lucro.
Possiamo immaginare quindi che l’orientamento di un’azienda for profit verso principi ed elementi di motivazione collettiva determini non solo il modus operandi del processo produttivo ma sia anche la base di maggiore efficacia ed efficienza ed arrechi numerosi e tangibili benefici anche in termini di produttività, quindi di utili?
E’ possibile che il fattore motivazione sia ormai considerato indispensabile in aziende evolute di servizi, del manifatturiero, della consulenza, dell’industria e che rappresenti un asset indispensabile anche in termini di permanenza e miglioramento delle posizioni di mercato? Gran parte della letteratura internazionale sembra confermare questa ipotesi anche in relazione al cambiamento dei paradigmi manageriali che esploriamo nel paragrafo seguente.

I nuovi paradigmi aziendali: quanto le pratiche del non profit possono sviluppare un nuovo tipo di economia

Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un proliferare, sempre in prevalenza nella letteratura internazionale ed in particolare in quella anglosassone, di articoli, saggi e volumi che hanno esplicitamente capovolto i paradigmi aziendali di riferimento.
In particolare si è fatta strada la convinzione che il management del futuro e gli attori chiamati a svolgere tale ruolo nelle aziende pubbliche, private ed in quelle senza scopo di lucro, debbano essere completamente diversi dai precedenti: modello gerarchico versus modello condiviso, responsabilità e condivisione del lavoro contro imposizione, empatia e rispetto in contrapposizione a mancanza di comunicazione e confronto.
La letteratura nazionale ha svolto in questo caso alcune riflessioni importanti, sviluppate da opinion leader e ricercatori che hanno lavorato oppure che tuttora operano in aziende senza scopo di lucro.
Francesco Bicciato è stato uno dei primi ricercatori ad aver analizzato tali aspetti. Discussione, collaborazione, interazione, identificazione con i valori guida dell’organizzazione: sono queste le cose che il mondo imprenditoriale tenta di recuperare, capitale di fiducia e motivazione, che le logiche dello scambio economico puro non sono in grado di garantire (F.Bicciato 2000).
P.F. Drucker, riferimento per le teorie e le pratiche manageriali, dichiara esplicitamente le caratteristiche della leadership del futuro. “The organizations of the future will be communities of enterpreneurs. They will be structured from many smaller interacting enterprises, more like the market structure of a free nation than that of a totalitarian system. Each of these enterprises will require leadership. The power to make fundamental work decisions, such as what to do and with what to do it, will continue to be divested by the hierarchy and gradually distributed to smaller, self managing groups who make those decisions together” (F. Hesselbein, M. Goldsmith, R. Beckhard 1996).
Quanto affermato sopra dall’autorevole studioso americano, non sembra uscire da una dichiarazione di intenti di una ONP, dalla visione e dalla missione di qualche impresa sociale sparsa sul territorio nazionale oppure da qualche imprenditore illuminato che ha capito che fare impresa oggi significa motivare, collaborare con i propri dipendenti, far partecipare i collaboratori stessi al processo strategico e decisionale.
Le ONP offrono tanti esempi di condivisione, partecipazione e motivazione che possono davvero ispirare chi, azienda o singolo, voglia decidere di fare finalmente qualcosa di nuovo e fuori dagli schemi. Nell’ultimo paragrafo del capitolo approfondiremo il tema delle nuove imprese e dei nuovi imprenditori.
Come accennato nella parte introduttiva di questo paragrafo, la letteratura internazionale ha da alcuni anni spostato l’attenzione rispetto alle pratiche manageriali sulle competenze soft, in alcuni casi di stretta derivazione non profit: non possiamo ormai più parlare di qualche caso isolato ma di un intero filone di ricerca che ha individuato tali requisiti come indispensabili per il management attuale e dei prossimi decenni.
Le competenze che il management deve possedere in relazione alla performance aziendale ed al raggiungimenti di determinati risultati economici sono chiaramente esplicitate:
a) orientamento all’azione, per esempio mantenere il senso di urgenza, agire in modo deciso per favorire soluzioni, risolvere crisi;
b) lavorare alla costruzione del gruppo, per esempio incoraggiare la cooperazione ed il coordinamento, facilitando al contempo la diffusione e la condivisione delle informazioni;
c) usare il pensiero critico ed analitico.
Il tema dei “costi” di una mancata azione ed orientamento verso la leadership sostenibile sono molto alti per aziende che competono in un mercato globale. (J.Forgie and D. DeRosa 2010)
“Other competitive forces, including the need to collaborate with the best suppliers and attract and retain customers and talented employees, may impel change. However, perhaps the major force brought to bear on a reluctant management will be the increased cost of doing business in an unsustainable way. The financial sector could exert enourmous pressure for change it if it chose to, valuing people-centered, innovative, ethical and stakeholder-based leadership practices over current business-as usual practices….The costs of borrowing for unethical firms will increase because of the potential risk to their reputations, and hence to their finances and other forms of sustainability” (G.C. Avery and H. Bergsteiner 2011).
Più in specifico, il ruolo del manager dovrebbe essere rinnovato profondamente rispetto alle aspettative interne ed esterne all’azienda ed al contesto economico generale.
Il cambiamento dovrebbe definirsi radicale se ipotizziamo che il nuovo ruolo preveda ad esempio il mutamento del profilo manageriale da controller ad enabler.
“To reach the new level of performance, the organization has to empower those doing the work, as to facilitate collaboration, rapid learning and innovation. The result is a dramatic shift in the role of the manager from controller to enabler. Instead of the workers reporting to the managers, the managers are accountable to those doing the work and for removing any impediments that are hindering the work (S.Denning 2011).
La profonda innovazione di ruoli e strategie organizzative all’interno delle aziende viene anche sviluppata nella differenza dicotomica tra transactional leadership e transformational leadership. “Transactional leadership involves daily exchanges between a leader and subordinates, and is necessary for achieving routine performance that is agreed on between leaders and subordinates. In summary transactional leadership is built on reciprocy- the idea that the relationships between leaders and their followers develop from the exchange of some reward such as performance ratings, recognition, and praise….. Transformational leadership on the other hand, is concerned with engaging the hearts and minds of others. It works to help all parties to achieve greater motivation, satisfaction and a greater sense of achievement. It requires trust, concern and facilitation rather than direct control. The skills required are concerned with establishing a long term vision, empowering people to control themselves, coaching, and developing others and challenging the culture to change” (A.J. Murray,A.Pirola-Merlo,J.C. Sarros,M.M. Islam 2010).
Quest’ultimo passaggio è a mio avviso decisivo nella comprensione del nuovo paradigma manageriale: sembra di assistere al passaggio da un modello di relazioni di lavoro tradizionale, lo scambio tra il superiore ed i sottoposti sotto forma di denaro, visibilità ed altro, ad uno nel quale il dirigente, il leader, colui che facilita gli accadimenti aziendali più importanti, porta i propri collaboratori ad una consapevolezza ed una visione completa del proprio ruolo in azienda.
E’ facile quindi scorgere in questa contrapposizione, non solo e non tanto due modalità ben distinte di esercitare la leadership in azienda, quando il tramonto definitivo di un modello gerarchico a matrice, tipico delle grandi organizzazioni industriali e dei servizi del ‘900.
Questa tendenza avvicina molto, almeno in teoria, le pratiche migliori del non profit al mondo dell’impresa più tradizionale, facendo intravedere inaspettate similitudini nella conduzione e nello sviluppo della gestione aziendale.
Ritorniamo infine a volgere lo sguardo verso il tema del cambiamento di stile di leadership e le ricaduta economiche di tale operazione.
“Hr leaders are already well aware of the importance of employer brand, which defines a company’s value proposition for employees and potential employees. A leadership brand, however, extends the concept of employer brand. It defines an organization’s leadership philosphpy and standards relevant not only to employees but to all stakeholders. This is where HR professionals’ unique perspective is critical: they not only see the effect of leadership on employees throughout the organization, but they also have a voice in how leaders are selected, moved throughout the organization and developed. This seat of influence can raise the level of focus from individual leaders to the idea of “leadership brand”- a defined and distinct reputation that distinguishes leadership in their company and generates real economic advantage” (V. McLaughlin and C. Mott 2010).
Questo tema, analizzato e circoscritto così bene dalle due studiose americane, elimina definitivamente qualsiasi dubbio sulla relazione tra nuovi stili di gestione e performance economico finanziaria. E’ infatti evidente che la reputazione e la performance di un’azienda, dipendono ormai dalla qualità e dai valori dei dirigenti.
Anche in questa situazione non ritroviamo, in maniera sostanziale, quanto affermato prima a proposito della qualità dei processi relazionali, dello sviluppo e dell’interazione tra dirigenti e collaboratori, della creazione di una nuova figura di capo azienda, ora più sostenibile e maggiormente vicino ai dipendenti nei processi produttivi. La reputazione di un leader dipende molto da questi aspetti e non tanto, ormai, dal conseguimento esclusivo di risultati finanziari in azienda.

Verso nuove intraprese

E’ ancora opportuno parlare di for profit e non profit? Quali sono le differenze che ancora consentono ad un’azienda di definirsi a scopo di lucro se questa lavora sul territorio, sviluppa pratiche produttive ed amministrative responsabili, reinveste nelle comunità locali? Probabilmente i confini sono ormai labili e sempre di più, anche a causa dei cambiamenti di paradigma che abbiamo accennato sopra, le due forme societarie saranno assimilabili, soprattutto a riguardo delle PMI.
L’obiettivo di queste breve paragrafo sarà quello di descrivere forme aziendali, esperienze e pratiche che sempre di più vengono accomunate, superando la classica dicotomia profit-non profit.
Il tema della gestione aziendale è sempre più trasversale e riguarda ormai fattispecie associative, produttive, di consulenza e ricerca.
Consideriamo ad esempio la gestione del personale: quali sono le aziende for profit che in modo consapevole, sostenibile, equo e responsabile, sviluppano e gestiscono i talenti all’interno di una o più unità produttive? Sono pochissime nel nostro paese: la gestione delle persone è stato fino ad un recentissimo passato un tema giuslavorista, coltivato e sviluppato da giuristi di impresa e non da professionisti che a tempo pieno si occupano di argomenti quali la crescita professionale, la soddisfazione dei dipendenti, il clima aziendale.
E il non profit? Sull’argomento specifico della gestione delle persone, il terzo settore italiano sembra ancora più arretrato rispetto al settore for profit: pochissime aziende senza scopo di lucro hanno piani formativi, di sviluppo, di ricerca organizzativa e di sviluppo e gestione dei talenti.
Queste considerazioni nascono dalla pratica empirica e dal contatto ravvicinato con mondi aziendali molto diversi tra di loro ma che sempre di più sono alla ricerca di nuove regole di ingaggio e modalità di gestione operativa e progettuale delle persone, quindi del vero ed unico valore di un’ intrapresa.
Il for profit sta cercando di includere prodotti e servizi tipici delle ONP nei propri piani produttivi e di marketing? Molte aziende for profit sono interessate a sviluppare progetti e servizi commerciali ad alto valore aggiunto come le filiere del commercio equo e solidale, i servizi agli anziani, le produzioni biologiche e biodinamiche. Da parte loro le ONP partecipano, di tanto in tanto, alla realizzazione dei prodotti/servivi/progetti: raramente tuttavia assumono un atteggiamento di confronto a tutto campo con il mondo produttivo tradizionale, trasformando una possibile occasione di sviluppo condiviso delle produzioni e dei servizi, in una forma di economia morale: la beneficenza. (E.P. Thompson 2009)
Le qualità manageriali e gestionali sono il corollario degli assunti sviluppati sopra.
Esistono significative differenze nell’atteggiamento operativo di alcuni dirigenti di ONP rispetto a quelli di aziende for profit? L’esperienza e la profonda conoscenza del settore non profit italiano mi fa propendere per una sostanziale similitudine in termini di approccio di gestione e visione strategica.
L’elemento distintivo in entrambi i campi sembra essere di tanto in tanto la massimizzazione del profitto, la visibilità sociale e politica, l’eccessiva competizione e l’incapacità di costruire relazioni personali ed economiche di rete e trasversali.
Il management del futuro dovrà costantemente considerare l’impatto sociale della propria azione, sviluppare il proprio ruolo come agente del cambiamento nelle comunità locali, assumere una prospettiva di medio-lungo periodo nella valutazione della performance economico-finanziaria, valorizzare sempre e costantemente i propri collaboratori, rendere praticabile e sostenibile dal punto di vista ambientale le produzioni e la commercializzazione dei prodotti, dei manufatti e dei servizi.
Senza questi obiettivi e nuovi paradigmi, in un futuro che vedrà sempre di più la prevalenza di aspetti valoriali ed etici nelle produzioni e nei servizi, fare impresa diventerà difficile, probabilmente impossibile.

Conclusioni

Il capitolo ha fornito alcune idee e suggestioni rispetto al dibattito scientifico in corso in questi anni nell’arena nazionale ed internazionale in particolare sul cambio di paradigma gestionale ed organizzativo in corso.
Le imprese del futuro, i leader dei prossimi anni, siano questi dirigenti di un’azienda senza scopo di lucro oppure di un’intrapresa tradizionale, non potranno prescindere da una riconsiderazione radicale del proprio ruoli e delle caratteristiche imposte dai nuovi contesti sociali ed economici. Il mantenimento delle vecchie consuetudini, delle pratiche più obsolete, dei soliti schemi divisivi ed improduttivi, non potrà che mettere in crisi le realtà produttive esistenti e non incentiverà la diffusione di nuove prospettive e modelli.
La speranza è che il dibattito scientifico su questi temi nel nostro paese, possa finalmente trovare un terreno fertile rispetto alla diffusione, discussione e pratica di modelli di gestione e di economia nuovi, all’altezza di un contesto di grande cambiamento.

Bibliografia

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Community Centro Studi (2013) Le leve strategiche del management aziendale: un confronto tra modelli di gestione e sviluppo del personale del for profit e del non profit, Rapporto di ricerca, Forlì

S.Denning (2011) The reinvention of management, Strategy & Leadership, Vol. 39 Nr 2 2011, pp 9-17

P. F. Drucker (1989) Economia, politica e management : nuove tendenze nello sviluppo economico, imprenditoriale e sociale Milano, ETAS libri

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