Crisi economica e vantaggio competitivo delle imprese non profit per l’Italia

di Renata Livraghi

Introduzione

«Una crisi ci costringe a tornare alle domande; esige da noi risposte nuove o vecchie, purché scaturite da un esame diretto; e si trasforma in una catastrofe solo quando noi cerchiamo di farvi fronte con giudizi preconcetti, ossia pregiudizi, aggravando così la crisi e per di più rinunciando a vivere quell’esperienza della realtà, a utilizzare quell’occasione per riflettere, che la crisi stessa costituisce» (Arendt, 1991).

La crisi economica e sociale è un fatto reale. Sta cambiando le condizioni di vita delle persone. C’è una crisi profonda che non riguarda solo i mercati monetari, perché sta incominciando a interessare la parte reale dei sistemi economici e sociali. Gli effetti si colgono nella produzione dei beni e servizi, nel mercato della formazione, nel mercato del lavoro e nei processi di sviluppo umano.

Gli effetti della crisi stanno toccando molte persone e aree territoriali. Si potrebbe dire che abbia addirittura generato una catastrofe.

Una catastrofe, secondo la «teoria delle catastrofi» di Thom, sarebbe una discontinuità e quindi non solo un evento in grado di creare disordine. Sarebbe un «salto strutturale» da un ordine a un altro (Thom, 1985). La crisi e le catastrofi sono delle discontinuità che si possono osservare1. Thom insegna che prima di una catastrofe c’è una crisi che è uno svilimento dei meccanismi di regolazione di un sistema.

La crisi può essere strategica, se genera consapevolezza e responsabilità nelle persone e nelle istituzioni private e pubbliche altrimenti genera decrescita economica, diseguaglianza, conflittualità, violenza permanente. La crisi per risolversi deve quindi generare una trasformazione. Hannah Arendt, più di mezzo secolo fa, aveva indicato la nuova modernità2 nel «principio-azione», costituito nell’ «incominciare» (Arendt, 1964). La globalità e la profondità della crisi attuale ci chiede uno sforzo interpretativo. Non è tempo dei massimalismi e delle impossibili alternative, ma quello di un nuovo homo faber3, che costruisce il futuro guidato dal principio «mai senza l’altro». Si tratta di implementare la razionalità progettante moderna, già capace di sinergie tra la teoria e la prassi (Boschini, 2012).

Una riflessione critica sulle motivazioni che determinano le azioni personali e sui valori etici che determinano il contesto economico e sociale si rende necessaria. Si dovrebbe porre l’attenzione sulla ragione valutativa4 e sulla ragione dell’efficacia5. La crisi economica dovrebbe quindi incentivare una domanda di etica o meglio il compito di determinare i fondamenti e le normative dell’ «etica delle capacità» che è un nuovo paradigma di analisi economica già ampiamente sperimentato e verificato in alcuni paesi (Livraghi, 2011).

Servono alternative credibili e praticabili. Ma, come è possibile costruire alternative concrete e praticabili, quando nessuno di noi, non ha ancora appreso il significato profondo di che cosa vuol dire agire con consapevolezza e responsabilità, in una economia sociale di mercato? Tali connessioni empiriche rafforzano la riflessione sui valori. L’etica delle capacità riprende una visione del soggetto molto efficace. Essa lo distingue in «paziente» e in «agente». Il soggetto non è necessario vederlo come destinatario passivo di un programma di sviluppo intelligente. Vi potrebbero, invece, essere ragioni forti per riconoscere il ruolo positivo di un’iniziativa libera, realisticamente sostenibile e costruttiva.

Le imprese non profit hanno la mission di creare utilità sociale (benessere inteso come wellbeing) mentre le imprese for profit perseguono soprattutto il self-interst (benessere, inteso come benessere organizzativo). La crisi economica e sociale sta trasformando le imprese non profit, del nostro paese, sempre più in imprese di nicchia a causa della mancanza dei finanziamenti pubblici e della difficoltà di attuare il fund raising. Il processo di trasformazione in atto, sta facendo perdere alle imprese non profit il loro valore sociale e la loro responsabilità di concorrere a realizzare un benessere equo e sostenibile.

Seguendo gli insegnamenti di Hannah Arendt, desideriamo incominciare a riflettere sulla possibilità delle imprese non profit a divenire una forza economica autonoma e indipendente, rispetto sia all’economia pubblica, sia all’economia privata. Se, grazie al principio di sussidiarietà sia possibile per le imprese non profit realizzare le condizioni di sostenibilità organizzativa ed esplicitare il vantaggio competitivo del non profit, relativamente all’economia privata.

1. Due paradigmi di analisi economica

I due paradigmi di analisi economica prevalenti sono entrambi collegati alla politica e all’etica, seppure in maniera diversa (Sen, 2001, p. 9)

Aristotele vede la politica come la «più importante» delle arti e collega l’economia ai fini umani, anche se, con il «commercio» si persegue il guadagno e la ricchezza. Il «commercio» è qualcosa contro natura dell’ essere ed è quindi è logico pensare che la ricchezza non possa coincidere con il fine. Essa è un mezzo per un qualcosa d’altro6. L’etica aristotelica si basa sull’ «ordine finale dell’essere» (Utz, 1999). Ciò significa accettare che ogni essere vivente del mondo è nel suo intimo (metafisicamente) un composto di atto e di potenza, ovvero, ogni persona ha delle risorse potenziali che devono però essere conosciute e utilizzate. Non c’è quindi alcuna possibilità di dissociare lo studio dell’economia da quello dell’etica e della filosofia politica (Sen, 2001). Gli effetti negativi dello «spirito commerciale» sono stati indicati con molta precisione anche da Smith. Nella Teoria dei sentimenti morali, vi è un tentativo scientifico di analizzare i sentimenti degli uomini, partendo proprio da assunzioni individualistiche, tipiche del diciottesimo secolo (Spalletti, 2009). «L’elemento che qualifica profondamente la costruzione scientifica di Smith, volta a una soluzione non immediatamente teoretica della sua indagine, è l’empatia, termine relativamente moderno che secondo alcuni studiosi appare il più adatto a descrivere il processo della sympathy smithiana. Caratteristica della sympathy è di operare a prescindere dalla progettualità umana e il grande risultato di cui essa è artefice è la costruzione del fondamento etico della società capitalistica, una grande impalcatura che impedisce al capitalismo stesso d’imboccare traiettorie regressive in senso economico e civile» (Spalletti, 2009, p. 36).

La caratteristica principale della sympathy non è tanto l’esplicitarsi di un generico “sentire con”. La rilevanza della sympathy di Smith è di natura sociale del possibile “immedesimarsi con”. «Tradotto sul piano normativo: se senti un valore e puoi realizzarlo, allora fallo. Ogni azione che corrisponde a questa legge è razionale e giusta. Tuttavia con questo non si è stabilito nulla riguardo al valore materiale dell’azione. Sono solo soddisfatte le condizioni formali di un’azione avente valore» (Stein, 2009, p. 197).

In economia quindi emergono due temi centrali: la motivazione e il giudizio dei risultati economici e sociali. Il primo tema è il problema della motivazione umana collegata alla domanda etica: «Come bisogna vivere?». Le scelte etiche non possono essere del tutto prive di rilievo per il comportamento umano effettivo. Il secondo tema riguarda la valutazione che deve essere etica e collegabile al fine di raggiungere il “bene umano” come è espresso da Aristotele.

Come i due paradigmi di analisi economica sono stati in grado di adempiere ai due temi centrali?

2. L’economia tradizionale: motivazioni estrinseche, massimizzazione degli obiettivi, crescita economica

L’economia tradizionale è caratterizzata dall’interesse per i temi prevalentemente logistici più che per i fini ultimi. I fini sono esplicitati dagli obiettivi e oggetto dell’impegno è trovare i mezzi adeguati per raggiungerli.

Il comportamento umano è basato su motivazioni semplici; le motivazioni intrinseche sono del tutto trascurate dall’analisi, perché si accetta il principio dell’additività. La realizzazione degli obiettivi esterni accresce inevitabilmente il benessere della persone e le relative motivazioni intrinseche.
L’economia tradizionale si collega all’economia quantitativa, avendo chiaramente un indirizzo logistico, cercando di analizzare il funzionamento dei mercati e indicando «l’arte di governo orientata in senso tecnico» (Sen 2001, p. 11).

L’economia tradizionale persegue la crescita economica, intesa come produzione di beni e servizi. Si fa coincidere il benessere con la crescita del reddito.

L’indicatore del benessere è il reddito pro capite. Esso è un rapporto: al numeratore vi è il reddito e al denominatore vi è la popolazione. La variazione del reddito pro capite è pertanto determinata dalla variazione del reddito e dalla variazione della popolazione. Oggi, i fattori determinanti la crescita del reddito non sono più correlati con quelli della popolazione come, invece, era stato sostenuto, in passato, dagli economisti classici. Il tasso di crescita del reddito è determinato dalla variazione del numero dei lavoratori occupati nel sistema produttivo moltiplicato per la variazione della produttività del lavoro, cioè dal prodotto per lavoratore. L’aumento della produttività è la conseguenza di una serie di innovazioni e del perseguimento del progresso tecnico. Accanto alle innovazioni e al progresso tecnico, il secondo fattore che ha permesso il continuo aumento del reddito nazionale è stato la continua crescita del capitale umano della popolazione (Livraghi, 1999).

Questa modalità di misurare il benessere di un paese presenta alcuni vantaggi: il reddito pro capite è abbastanza facile da misurare, perché il valore monetario dei beni e servizi rende possibile la comparazione di prodotti differenti. La crescita economica è una condizione necessaria anche se non sufficiente per generare benessere. Alcuni economisti credono nella teoria della ricaduta, secondo la quale i vantaggi della crescita economica potrebbero migliorare la situazioni di ogni persona.

Il reddito pro capite coglie solo l’aspetto produttivo dell’esistenza umana, perché non dice nulla sulla distribuzione delle risorse prodotte e sulla situazione reale della vita delle persone.

3. L’etica delle capacità: capacità intrinseche e capacità combinate, valutazione economica e sociale

L’approccio delle capacità si basa su un’etica sociale, pubblica; è quindi distinta da un’etica individuale e da processi di valutazione che fanno coincidere il benessere con la crescita percentuale del prodotto interno lordo pro-capite. Essa intende formulare giudizi sugli assetti sociali e sulle politiche pubbliche (Sen 1993).

Si tratta di stabilire cosa fare di fronte a gravi problemi quali l’ineguaglianza, la povertà, la mancanza di lavoro. Ciò non significa negare la rilevanza delle capacità individuali. L’etica delle capacità prende le mosse da una domanda molto semplice: cosa sono in grado di essere e di fare le persone? Quali sono le reali opportunità a loro disposizione?

La questione è semplice e complessa insieme, poiché la qualità della vita umana comprende molteplici elementi, la cui interazione va attentamente studiata (Nussbaum, 2012). Si è ormai concordi nel sostenere che «etiche sostantive» non possono di fatto essere poste alla base di società pluralistiche come quelle attuali. Il significato della categoria di «bene comune» è infatti assai problematica nell’odierna condizione sociale pluralistica che, con Maritain, possiamo definire di babélisme: «La voce che ciascuno proferisce non è che un puro rumore per i suoi compagni di viaggio» (Maritain, 1990, p. 143-164). «In questo senso potremmo dire che viviamo una crisi comunicativa. Non riusciamo a raggiungere una concezione universale dell’uomo come orizzonte di una comune intesa. In assenza di questo codice, la pluralità fa problema, tanto più che l’aumento e l’accelerazione dei flussi migratori (processo di meticciato di civiltà) hanno decisamente cambiato l’assetto del mondo: i “diversi” che noi siamo si trovano – volenti o nolenti – a dover progettare una convivenza, senza poter più contare sui grandi racconti del passato, su quelle potenti narrazioni che suggerivano d’emblée le coordinate del bene comune. Sembra che oggi non sia più possibile raccontare in modo credibile la verità circa l’esperienza umana. Viviamo ormai nella convinzione più o meno esplicita che la ragione umana sia uno strumento debole, incapace di portare a termine il compito di conoscere la realtà e di stabilire valori da tutti condivisibili» (Scola, 2012).

L’etica delle capacità è essenzialmente economia normativa ed esplicita i comportamenti, le condizioni o le relazioni che dovrebbero caratterizzare la piena realizzazione delle potenzialità umane. Si devono distinguere, comunque, le capacità interne delle persone e quelle delle imprese/istituzioni, dalle capacità combinate, relative al contesto ovvero alla specificità del sistema economico e sociale nel suo complesso. La distinzione corrisponde a due compiti, che si sovrappongono ma sono distinti in una economia sociale e una economia di mercato.

Un sistema economico e sociale potrebbe produrre capacità interne ma limitare le opportunità per le persone e per le imprese di funzionare in sintonia con le loro capacità. Un esempio è dato dal drammatico problema della transizione dalla scuola al lavoro (Livraghi, 2012) o dalle imprese che devono lasciare il mercato, pur essendo produzioni di nicchia.

Nei sistemi economici e sociali che si hanno elevate capacità combinate si hanno anche elevate capacità interne. In quei contesti, si possono scegliere liberamente i funzionamenti (le modalità di essere e di fare), perché la motivazioni estrinseca rispecchia la motivazioni intrinseca.

La distinzione tra capacità interne e le capacità combinate non è netta, perché in genere si acquisisce capacità interna mediante qualche tipo di funzionamento e la si può perdere in assenza dell’opportunità di funzionare (Nussbaum, 2012). L’etica delle capacità ci insegna a riflettere e a valorizzare l’esperienza.

Esperienza non significa solo fare. Essa richiede di essere abili nell’osservare, nel riflettere, nel giudicare e quindi di scegliere di agire in maniera coerente e non casuale (Di Nubila, Fedeli, 2010).

La valorizzazione dell’esperienza dovrebbe favorire la convertibilità delle risorse e quindi produrre funzionamenti di valore, perché scelti in maniera consapevole e responsabile. Tutti i funzionamenti avrebbero quindi una ragione comune. La qualità della vita delle persone è quindi coerentemente declinata in alcuni funzionamenti rilevanti e misurata con l’indice dello sviluppo umano o meglio con le analisi multidimensionali del benessere equo e sostenibile (Bes, 2013).

4. Superare la dicotomia tra economia di mercato e l’economia sociale

Il sistema economico e sociale italiano non riesce a valorizzare pienamente le risorse e le potenzialità umane. Tale affermazione risulta evidente dalla misura del benessere, condotta in Italia, dall’Istat e dal Cnel e resa pubblica nel marzo 2013.

La conoscenza guida l’azione. Ora, sappiamo quali sono le condizioni oggettive della vita delle persone in Italia, quali sono stati i miglioramenti e chi ne ha beneficiato. Le condizioni oggettive sono strumentali per migliorare il benessere soggettivo.

Il Bes è uno strumento cardine per comprendere il funzionamento del mercato e delle Istituzioni pubbliche in Italia e si capisce che è assurdo separare i processi di mercato da quelli sociali, così come presuppone, l’utilitarismo e l’economia marginalista, tuttora prevalenti. Ciò nonostante, alcuni economisti sostengono che più un’economia è affetta da fallimenti di mercato o del Governo, maggiore è il ruolo delle imprese non profit.

La funzione obiettivo delle imprese di mercato for profit è la massimizzazione del profitto, con il vincolo di raggiungere certi standard di responsabilità sociale, ambientale, sindacale ed etici minimi, per essere in grado di relazionarsi con gli altri stakeholder diversi dagli azionisti.

Il principio della sussidiarietà (Irer, 2003) dovrebbe reggere la funzione obiettivo delle imprese non profit. L’obiettivo delle imprese non profit è realizzare e sviluppare nel tempo un progetto. Esse sono imprese di mercato e quindi hanno da rispettare le condizioni di economicità e di efficienza (Becchetti, Bruni, Zamagni, 2010). Il profitto è un segnale che il progetto funziona e l’efficienza è vista come un comportamento etico e di valore aggiunto sociale.

L’attività svolta dalle imprese non profit è una parte essenziale della loro identità o meglio della loro cultura organizzativa. Essa rappresenta la missione dell’organizzazione, volta a migliorare il benessere individuale e collettivo, della comunità di riferimento. L’attività e la localizzazione delle imprese non profit sono elementi costitutivi dell’organizzazioni, pur essendo una realtà dinamica e in continua coevoluzione con il contesto. La cultura organizzativa delle imprese non profit evidenzia i valori condivisi dei manager e della comunità (Spazzoli, Liuzzi, 2010). Sono valori motivati intrinsecamente che danno luogo a dati comportamenti e azioni continuamente monitorate e valutate.

Tale funzione obiettivo porta ad accrescere la qualità del prodotto o meglio del bene sociale perché si dovrà continuamente prestare attenzione e deliberare in relazione con la comunità di riferimento e con i lavoratori al proprio interno. La qualità del prodotto accresce i costi perché comporta la scelta di non accettare sempre la fornitura al prezzo più basso, come generalmente avviene per le imprese for profit.

I maggiori costi di produzione del bene sociale possono però essere compensati dai consumatori consapevoli e responsabili che premiano la qualità del bene e della struttura organizzativa. D’altro canto, il comportamento organizzativo delle imprese non profit dovrebbe accrescere i livelli di produttività dei lavoratori e far diminuire i costi di transazione tra i diversi stakeholder.

Se l’obiettivo sociale delle imprese non profit è credibile e meritevole di interesse si creeranno allora relazioni sociali stabili, capitale sociale e molte persone avranno agency per l’organizzazione non profit. A differenza delle imprese for profit, esse hanno capacità di mobilitare lavoro volontario e risorse materiali, perché contribuiscono a formare una identità sociale di chi vi partecipa o entra in relazione con esse.

5. Il problema dell’incertezza e della indeterminatezza delle imprese non profit

L’economia tradizionale ha cercato di spiegare le scelte dei soggetti con motivazioni intrinseche elevate senza tuttavia riuscire a dare una risposta esaustiva dell’elevata presenza di imprese non profit nel nostro paese (Becchetti, Bruni, Zamagni, 2010).

L’etica delle capacità, come si avuto modo di osservare, riesce a invece a spiegare il ruolo delle imprese non profit e i vantaggi competitivi introducendo nel modello il principio della sussidiarietà, con organizzazioni che prospettano un sistema naturale aperto. Tuttavia, con l’etica delle capacità, si produce il problema dell’incertezza e della indeterminatezza, soprattutto per le imprese non profit. Tale problema può essere causato da fattori diversi:
contesto (fornitori, clienti, concorrenti, regole istituzionali);
leadership e manager
persone (lavoratori, volontari) nelle loro diverse dimensioni psicologiche-comportamentali, cognitive, strategiche-razionali, etiche
Nelle imprese non profit si è in una logica dell’azione organizzativa e del sistema come processo che è basata su una razionalità intenzionale e limitata. La razionalità dei comportamenti reali è sempre limitata, perché la conoscenza delle alternative di scelta incompleta; non è possibile prevedere la scelta ottimale. D’altro lato la razionalità comporta intenzionalità dell’azione, orientamento di senso verso mission e valori.7 Secondo la razionalità intenzionale e limitata è possibile ordinare le azioni verso esiti soddisfacenti. Il percorso è continuamente correggibile e modificabile, sulla base di nuove conoscenze e sul giudizio dato sulle esperienze: è un percorso euristico, di ricerca, di apprendimento e di decisione. Il sistema organizzativo delle imprese non profit deve quindi essere un processo che si autoproduce e si automodifica. Molto spesso ci si concentra sull’efficienza e sugli ingranaggi del funzionamento.
Le imprese non profit hanno oggi lavoratori che possono condividere solo in parte la finalità ideologica dell’organizzazione e che possono essere interessati solo parzialmente agli elementi di ordine valoriale. «Emergono interessi e motivazioni sempre più plurali legate all’esigenza di trovare un’occupazione, alla volontà di stare bene al lavoro, al desiderio di disporre di competenze per svolgere la propria professione con tranquillità, all’aspirazione di essere occupati in ambienti che rispettano e valorizzano il ruolo e le competenze delle singole persone ed integrano le diverse professionalità all’interno di un disegno organizzativo e gestionale armonico e unitario» (Borzaga, 2008, p. 10).
Non si deve dimenticare, come insegnano i testi didattici sul comportamento organizzativo (Kreitner, Kinicki, 2013; Tosi, Pilati, 2012), che il grado di soddifazione del cliente dipende dal grado di soddisfazione dei lavoratori che nelle imprese non profit riguarda anche quello dei volontari.

Il non profit sono imprese di mercato che esistono per la loro originale presenza ovvero sono espressione dei tentativi di dare una risposta a nuove esigenze e a rinnovati bisogni sia di tipo economico sia di tipo sociale, come è stato evidenziato misurando il benessere equo e sostenibile in Italia (Bes, 2013). La questione è quindi quella di come favorire il perdurare di una tensione verso i luoghi in cui le urgenze si manifestano, come stimolare una sensibilità verso il contesto di appartenenza, limitando il rischio di involuzione o cercando di omologarsi alle imprese for profit anche utilizzando l’affidabilità ottenuta in precedenza.

6. Il vantaggio competitivo delle imprese non profit è dato dalla convertibilità delle capacità combinate e dall’esercizio della sussidiarietà

Come è possibile per le imprese non profit continuare a perseguire la propria mission in maniera efficace in una situazione di mercato, senza omologarsi alle imprese for profit? La risposta, data dal paradigma economico dell’etica delle capacità, è quella di riuscire a convertire le capacità combinate (capacità interne all’organizzazione insieme a quelle esterne della comunità di riferimento) in funzionamenti e per far ciò occorre avvalersi della sussidiarietà, come esercizio di libertà da parte di ciascuno.

Un insegnamento importante, per come organizzare le risorse disponibili, è quello che proviene da Chester Barnard (1938). Egli sostiene che non è possibile comprendere il funzionamento delle organizzazioni se non si conoscono i moventi che spingono le persone a contribuire alle organizzazioni stesse. Il rapporto che si stabilisce tra le organizzazioni non profit e le persone, che a qualsiasi tipo contribuiscono alla loro mission, costituisce il reale problema odierno, per evitare la loro omologazione con le imprese for profit. Egli si chiede come sia possibile che persone con una loro vita, con dei loro interessi, che non si conoscono e che non hanno nulla a che fare con gli scopi dell’organizzazione decidano di impegnare il loro tempo e le loro energie per il raggiungimento di quegli scopi? Come può l’organizzazione ottenere il loro consenso e il loro impegno? (Bonazzi, 2002).
Per rispondere ai quesiti posti, Barnard ricorre a una parabola: «Supponiamo che un uomo viaggiando su una strada solitaria si imbatta in un masso che gli impedisca di proseguire. Dopo aver costato che da solo non riesce a spostare il masso, egli attende che sopraggiungano altre persone anch’esse interessate a sgomberare la strada. Unendo gli sforzi di tutti insieme riescono a spostare il masso: là dove i limiti di una sola persona impediscono di raggiungere un dato scopo, la cooperazione tra più persone interessate al medesimo scopo riesce nell’intento. Ma immaginiamo che il masso sia talmente grande che le quattro persone impegnate non riescano a spostarlo. Esse dovranno chiedere l’aiuto a una quinta persona, supponiamo un contadino che arriva con un trattore. Il contadino non ha interesse diretto a spostare il masso, lui non passa per quella strada, ma di fronte a una congrua somma di denaro egli accetta di impegnare il trattore. In quel momento spostare il masso diventa anche il suo scopo. Attraverso la mediazione in denaro il contadino si mobilita per raggiungere uno scopo che non è suo personale ma del gruppo che lo ha chiamato e a cui accetta di partecipare.» (Bonazzi, 2002).
La parabola del masso si presta ad alcune riflessioni, molto utili per gestire imprese non profit in maniera efficace ed efficiente:
il masso viene spostato perché il gruppo si è organizzato, dapprima informalmente attraverso lo scambio di idee e di pareri attraverso il quale si arriva a capire in che misura sia possibile cooperare, per giungere poi così alla decisione formale di impegnarsi al massimo per spostarlo, coinvolgendo altri che fossero in grado di aiutare, anche se non direttamente interessati. Nel momento in cui il fine comune viene perseguito tramite l’organizzazione formale diventa il fine dell’organizzazione (Torre, 2007);
il gruppo è riuscito a spostare il masso perché si è organizzato cooperando e attivando sussidiaretà. L’organizzazione è una forma di azione collettiva, che si ripete nel tempo, basata su processi di differenziazione e di integrazione che siano tendenzialmente stabili e intenzionali. Ci devono quindi essere delle persone che intendono collaborare per raggiungere uno scopo comune. Vi è un elemento informale che è quello di comunicare il progetto e di relazione e un elemento formale che è dato dalla decisione. Il benessere dell’organizzazione non consiste quindi nella somma del benessere delle singole persone direttamente coinvolte, come ipotizzato dall’economia tradizionale, ma vi è in essa un benessere che migliora la qualità della vita delle persone della comunità, dovuto all’esercizio della sussidiarietà e della cooperazione. Si creano così esternalità positive che generalmente vengono valutate, al contrario delle imprese for profit, che molto spesso producono esternalità negative per la comunità;
bisogna però distinguere tra gli scopi dell’organizzazione e i moventi personali. Distinguere tra scopi organizzativi e moventi personali comporta che i manager dell’organizzazione non possono solo preoccuparsi di perseguire fini organizzativi ma devono anche tener presente i moventi che spingono i singoli membri a partecipare. Il problema principale dei manager delle imprese è quindi quello di come riuscire a mobilitare un insieme di persone per uno scopo che non è il loro, offrendo incentivi di varia natura che riescano a soddisfarli. Gli incentivi sono fattori oggettivi che mirano a soddisfare le aspettative delle persone e possono essere sia di tipo materiale sia di tipo immateriali;
un altro aspetto riguarda la distinzione, ma anche l’intimo rapporto tra gli elementi formali e quelli informali. I rapporto informali possono pre-esistere rispetto a una organizzazione, ma dopo che essa è formata nuovi rapporti possono formarsi. Si dovrebbe creare una osmosi tra livello formale e informale tra le persone.
L’impresa non profit dovrebbe quindi essere un sistema intrinsecamente cooperativo che diviene tale proprio perché lo scopo non è più delle singole persone ma dell’organizzazione. La partecipazione deve essere ottenuta tramite il consenso, vale a dire attraverso la mediazione della molteplicità degli scopi e moventi individuali (Torre, 2007).
L’organizzazione non sono però delle entità dotate di vita propria, indipendente dall’azione umana. Esse sono sempre il frutto dell’iniziativa umana e dei comportamenti umani.
Le decisioni che concernono la mission si fondano su giudizi di valore (economia normativa), cioè sulla preferenza (si connotano su una soggettività) mentre i mezzi per raggiungere l’obiettivo derivano da giudizi di fatto (economia positiva), verificabili in maniera oggettiva. Il come farlo attiene ai giudizi di fatto (adeguatezza e fattibilità). In realtà, il rapporto tra mezzi e fini genera una sequenza: un fine raggiunto in base a una decisione di valore, si trasforma in una risorsa per raggiungere un fine successivo, per cui risulta impossibile valutare oggettivamente un assetto economico sociale senza tener conto delle risorse e della convertibilità di esse.

7. Efficacia ed efficienza. Il comportamento organizzativo

La distinzione tra fini organizzativi e moventi personali è la base del modello di Barnard come pure lo è per l’impresa non profit. Egli sviluppa la tesi che ogni membro di una organizzazione è dotato di una doppia personalità: una personalità organizzativa e una personalità individuale. Il rapporto tra personalità organizzativa e personalità individuale è problematico. La distinzione di questi due fini porta Barnard a individuare due diverse dimensioni dell’azione organizzativa che sono l’efficacia e l’efficienza. L’efficacia misura il grado in cui l’organizzazione raggiunge i suoi obiettivi mentre l’efficienza misura il grado in cui i moventi personali di far parte di una organizzazione vengono soddisfatti.
Efficacia ed efficienza non sono necessariamente correlate. Si possono quindi realizzare quattro diverse situazioni:
efficace ed efficiente: è la situazione ideale a cui tendere;
efficace ma non efficiente: l’organizzazione raggiunge i suoi fini ma non crea benessere per i lavoratori e i volontari;
efficiente ma non efficace: l’organizzazione non raggiunge l’obiettivo che si era prefissato ma crea benessere per i lavoratori e per volontari;
non è efficace e non è efficiente: l’organizzazione non raggiunge l’obiettivo e non crea benessere per i lavoratori e per i volontari.
Come si può osservare l’impresa non profit per essere competitiva con le imprese for profit dovrebbe essere efficace ed efficiente mentre sarebbe esclusa dal mercato, in assenza di risorse pubbliche se non fosse efficace e neppure efficiente.
Molto spesso, la realtà italiana evidenzia situazioni di imprese non profit efficaci ma non efficienti dove non vi è alcun spazio per i lavoratori e per i volontari di modificare strutture organizzative ormai depositate nel tempo che tendono a divenire delle istituzioni. È forse necessario spostare l’attenzione sulle caratteristiche interne delle organizzazioni non profit. È necessario soprattutto individuare le caratteristiche e la composizione delle risorse umane impiegate, approfondire la specificità delle relazioni tra lavoratori, volontari e organizzazione e fissare soprattutto l’analisi di processo di una organizzazione e non solo su quella della struttura.
Ciò è stato rilevato anche da una ricerca empirica coordinata da Borzaga e da Musella. In essa si sostiene che. «In coerenza con l’obiettivo distributivo, o con la mission sociale di queste organizzazioni, all’interno dei mix di incentivi offerti ai lavoratori il salario tende ad assumere una rilevanza inferiore a quella ad essa attribuita dalle altre organizzazioni. In alternativa, assumono maggiore rilevanza sia la coerenza tra obiettivi sociali dichiarati e concrete modalità di gestione dell’organizzazione e di erogazione dei servizi, che altri aspetti del lavoro, tra cui: la possibilità di partecipare direttamente alla gestione dell’impresa, un sistema di relazioni che attenua la penosità del lavoro e livelli soddisfacenti di equità. Si ipotizza quindi che, offrendo questo particolare mix di incentivi, le organizzazioni non profit riescano meglio delle altre a selezionare lavoratori e manager con elevate motivazioni intrinseche e che condividono gli obiettivi sociali dell’organizzazione, e a garantirsi la collaborazione del personale, sia volontario che retribuito, senza dover sostenere costi elevati sia di monitoraggio che di incentivazione. In questo modo esse possono risultare non solo più efficienti, e quindi più competitive, delle controparti pubbliche e for profit, riducendo i costi a favore degli utenti e attivando così una domanda aggiuntiva di servizi, ma anche più efficaci, producendo servizi di migliore qualità» (Borzaga, Musella, 2003, p.10).
Il brano più sopra citato ricorda alle imprese non profit di utilizzare al meglio gli incentivi per gestire al meglio le risorse umane. Essi sono fattori oggettivi che tendono a soddifare le aspettative delle persone coinvolte nel processo di produzione dei servizi. Barnard ci ricorda che oltre agli incentivi vi può anche essere la persuasione che è molto complessa da praticare e insita di difficoltà non sempre evidenti.
Un esempio particolarmente significativo è quello esplicitato da Teresina Torre. Essa rileva che: «Un incentivo tipico del volontariato è, ad esempio, l’impegno per il prossimo, ritenuto di per sé gratificante e che, oggettivamente, può essere goduto solamente tramite l’adesione a quell’organizzazione (o ad una similare). Sino a quando gli incarichi affidati, gli sforzi sollecitati consentiranno di beneficiare della soddisfazione derivante dal ricolmare questo bisogno, il nostro volontario sarà attivamente presente: ma è evidente che si tratta di un equilibrio instabile … da controllare costantemente (se ci preme che il rapporto prosegua …). La persuasione agisce, invece, sul lato soggettivo del rapporto tra organizzazione e individuo: tende ad una gamma di strumenti, che vanno (quanto meno dal punto di vista teorico) dalla coercizione, più o meno palese (o comunque poco significativa nel volontariato alla mobilitazione “ideale”. Non dimentichiamo mai che ciò che è importante non è quello che l’apporto individuale significa per ciascun partecipante all’organizzazione personalmente, bensì quello che egli pensa significhi per l’organizzazione nel suo complesso: sembra una distinzione sottile, ma è assolutamente centrale perché posizione la dimensione soggettiva su quella oggettiva, che mai potrà essere accantonata» (Torre, 2007, p. 22).

8. Conclusioni

In questa fase di traformazione e di cambiamento, le imprese non profit dovrebbero quindi cercare di accrescere la loro efficienza organizzativa accrescendo la partecipazione e il coinvolgimento dei lavoratori, sia per quanto concerne il proprio compito, sia per quanto riguarda la più ampia politica aziendale.
Enzo Spaltro, medico e psicologo, è lo studioso che più di ogni altro si è occupato di benessere in Italia. Egli definisce la psicologia del benessere come la scienza che si dedica allo studio delle risorse abbondanti: idee, capacità, conoscenze, desideri, creatività, iniziativa. Si tratta di risorse psichiche e soggettive, immateriali e non quantificabili che, diversamente dal denaro (materiale e quantificabile), non sono destinate ad esaurirsi, anzi, più vengono esercitate, più crescono e si consolidano (si pensi alla creatività di un artista che si accresce con l’esperienza…). Secondo Spaltro, le organizzazioni, per vincere le sfide dell’innovazione e dello sviluppo, devono imparare a valorizzare questo tipo di risorse.
Il luogo elettivo di valorizzazione della soggettività degli individui è il gruppo di lavoro, che Spaltro definisce come l’origine e il teatro del potere soggettivo: «la soggettività è essenzialmente potere soggettivo e quindi percezione ed emozione di poter provocare o impedire i cambiamenti nel proprio lavoro» (Eu-tròpia, 2005). In un gruppo di lavoro capace di valorizzare la soggettività troviamo le seguenti caratteristiche:

la differenziazione della leadership, anziché l’unicità di comando;
il potere non come diritto di veto ma come iniziativa e stimolo capace di provocare cambiamento;
il dissenso come valore, l’obbedienza cieca considerata negativa;
il conflitto come fisiologia (versus patologia), cioè risorsa del sistema uomo-uomo;
il consenso, anziché la dipendenza, come valore.

Infine, Spaltro invita a parlare di “invenzione” del benessere perché, «a differenza del malessere che esiste e va scoperto, il benessere non c’è e va inventato» (Spaltro, 2004). In questa prospettiva, «il soggetto è raffigurabile come un progettista di benessere. Per questo, egli è il protagonista della ricerca di benessere e il protagonista del clima, della cultura, dell’organizzazione e dell’istituzione» (Spaltro, 2004).

Nelle organizzazioni non profit sarà necessario valorizzare da un lato le capacità degli individui e, dall’altro, gli aspetti legati al clima organizzativo che possiamo considerare come il moltiplicatore relazionale delle motivazioni individuali. Infine, fra i diversi strumenti disponibili per la progettazione del benessere nelle organizzazioni, Spaltro rileva l’utilità di «disporre di un kit di occasioni e di esperienze su cui effettuare un lavoro di cooperazione e di scambio».

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